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giovedì 19 maggio 2016

A ciascuno il suo mulino. Questa è Sicilia.di Maria Frisella


No, non è la casetta del mulino bianco e di bianco c’è il sale della Sicilia, cumuli sotto il sole accompagnati da vecchi mulini a vento con il tetto sbiadito, a ricordarti che la natura rimane sempre ad emozionarti come il passato fenicio che riemerge.
    Non è solo storia di natura e lavoro, c’è dentro
qualcosa di te nella solitudine di quelle montagne di sale, cristalli con la loro vita separata, fermi lì tra le vasche come in attesa. 
Se aspetti il tramonto e ti lasci avvolgere dal rosso che va dimenticando l’arancione, ti puoi perdere nell’immobilità dei riflessi delle acque, sfumati  ma netti come un’altra vita, un altro margine, un altro cielo.

Proprio in questo ambiente, si, la natura favorisce la coltura del sale grazie alla salinità del mare Mediterraneo, alla elevata  irradiazione del sole, alle scarse piogge ed alla energia  del vento.

Le saline si estendono su mille ettari del territorio costiero che va da Trapani fino alle isole dello Stagnone, presenti già al tempo dei fenici, nel primo millennio a.c.

Il sale, questo oro bianco che serviva non solo come integratore alimentare ma anche per conservare sgombri e tonni pescati in quei mari, carni e la concia delle pelli, dovette costituire un importante fonte commerciale per Fenici e per i popoli che si avvicendarono.
     Tu pensa che il famoso geografo arabo Edrisi  scrisse per il re normanno Ruggero II, il “Libro per lo svago di chi ama percorrere le regioni” raccontandogli che una salina si trovava proprio davanti la porta di Trapani ormai nota per il suo porto ed il suo commercio europeo.
  
Federico di Svevia istituì il monopolio per la produzione di sale, importante commercio di Stato che durò nel periodo angioino fino a che gli aragonesi lo restituirono alla proprietà privata, o come si disse allora lo diedero in gabella.          Nel 1840 fu abolito definitivamente il dazio.
Il resto lo fece l’apertura del canale di Suez nel 1869, e fu commercio per  rotte internazionali, non ultime le Americhe.
      Poi, le saline industrializzate di Cagliari, le guerre mondiali ed il degrado del porto, la concorrenza straniera dopo la seconda guerra mondiale, segnarono la decadenza del commercio e pertanto delle saline.
    Fu importante allora la creazione della Riserva che nel 1995 risollevò la gestione recuperando gli impianti e ritornando a produrre un sale marino che oggi è nell'elenco dei prodotti agroalimentari  riconosciuti nel 2011 quale IGP proprio perché  l’estrazione del sale rispetta le tecniche tradizionali.
      Oggi quell’ambiente così ricco di storia, di flora e di fauna, che va dall’Isola fenicia di Mozia, nel suo comprensorio vitivinicolo, alle saline di Marsala, Paceco e Trapani è in predicato per essere riconosciuto patrimonio dell’Unesco ed inserito nella Word Heritage List. Come non approvare?
     

Puoi vivere il museo a cielo aperto nell’isolotto di Calcara,  tra pale, ceste, il rullo di pietra,  le botti, il carretto….. o  addirittura salire sull’antico schifazzo San Giacomo, una barca con vela e fiocco per il trasporto del sale per mare, diverso dalle più piccole "mociare" senza ponte e vela, per il trasporto interno, o  attraversare il mare bassissimo dello Stagnone ed approdare con la barca sulle coste di Motya.
     Puoi sederti ai bordi della vasche colorate, e seguirne i processi da quella fredda più grande per l’acqua marina, alle altre man mano di dimensioni e di temperature  diverse, le 20 retrofredde, le 30 messaggere,dette anche ruffiane, le 40 calde, cauri che segnano la saturazione, le 50 caselle, i caseddari dove il sale si cristallizza per evaporazione dell'acqua e viene raccolto da squadre di operai, diretti dal curatolo, e sistemato in cumuli, quei bianchi munzidduna da 200 a 400 tonnellate protetti da ciaramire, tegole di terracotta Ecco, sei arrivato agli ariuni, le aree dove il sale brilla e ti accorgi che ti sei perso in quelle distese di laghetti tra un canaletto e l’altro, ha vissuto una storia secolare e ti ritrovi nello specchio della natura provvida da custodire.
       Puoi visitare un mulino, magari quello della fortezza  seicentesca di Nubia, baglio adibito alla molinatura del sale, con i suoi muri di pietra, i ruzzoli, i cattedri (le ceste per traspostare il sale), gli ntinni di legno (le pale dei mulini), la vite d’Archimede per aspirare l’acqua, i tagghia (le misure del sale), la macina tra i sacchi di iuta, il carro con la botte d’acqua per dissetare i salinari, nasse e reti per orate e spigole che potevano essere allevate nelle vasche.       Pesci pregiati che arricchivano le tavole dei proprietari ed ottimo condimento per couscous.
    Non puoi più trovare ‘u mulinaru, quello che  a marzo arbulava u mulinu attaccando alla struttura le pale di legno, ntinni, e vi arrotolava le vele rosse,   le ncucciava orientandole al vento del mattino.
      Il tempo trascorre inesorabile, si perdono lavori e cose, ma tu puoi cercarne la memoria. 
Se dalla memoria trai lo spunto per ricominciare, lì, dalle risorse, e farne un punto di forza, un lavoro, uno sviluppo, bene allora la memoria diventa valore. 


















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