E’ morto Muhammad Ali, un atleta tra i 10 più famosi al mondo con Sugar Ray Robinson, Joe Louis, Rocky Marciano, Jake LaMotta, Jack Johnson, Henry Armstrong, Jack Dempsey, Mike Tyson, che hanno reso epico il pugilato.
La loro
resistenza, la velocità, il sudore, la passione e la tecnica potrebbero farli
sembrare sicuri di sé e
violenti sul ring, ma le loro storie accomunano miseria e rivincite,
ghettizzazione e riscatto sociale favorendo le leggende che ne hanno fatto un
simbolo della forza e dell’intelligenza motoria, ma anche di generosità
sociale.
Il
pugilato era definito da James Figg “la Nobile
Arte della difesa”, sport che prende in prestito i pugni dall’istinto
dell’uomo quando deve difendersi e non ha armi. Non ho dubbi che sia così però
non posso non osservare la violenza che solleva intorno al ring tra gli
spettatori, pure se anche il calcio la registra recentemente intorno al campo e
fuori!
Per
questo non mi piace. Ma certamente dovette affascinare molto se, praticato con
molto ardore, è ricco di testimonianze antichissime, dai graffiti del III millennio
a.c., conservati al British
museum of London, o nei versi dell’Iliade
e dell’Eneide, in Socrate, nelle
Panegirie di Erodoto, ne La Repubblica e nel Gorgia di Platone, nei gruppi scultorei dell’antichità! Ve li ricordate, quando si studiava Omero, i versi in cui Epeo,
costruttore del cavallo di Troia, dopo un incontro di pugilato venne
premiato con una giumenta "indomita", dunque fiera ma senza regole?
I corpi
erano atletici e come non ammirarli, eppure quella forza richiamava la sfera
del divino!
Anche in
Egitto violenza e sacralità dovettero rendere celebri i pugili tanto
da dipingerne ben oltre
quattrocento, di fronte alla tomba del faraone Beni Hassan.
Combattevano il
“pancrazio” che
univa pugilato e lotta, calci,
pugni, prese articolari, concesse le lussazioni, la frattura delle ossa, le
tecniche di strangolamento ma mai la morte punita penalmente.
Fu il principio dello sport quale rispetto del corpo e della mente che
portò il pugilato nel panorama
olimpico dal 668 a.C. e si
combattè fino a al 393, quando l’imperatore l'imperatore Teodosio I vietò
l'organizzazione di nuove olimpiadi.
Se i
pugili, pure mortali, per vincere avevano bisogno degli Dei, quale migliore
simbolo della vittoria se non la Nike,
l’angelo alato ambasciatore di Zeus e Atena?
La Nike
premiava il pugile più forte e
vincente, coronandolo con una ghirlanda di olivo selvatico
nei Giochi Olimpici, di pino nei Giochi Istmici, di alloro nei Giochi Pitici e
di sedano selvatico in quelli Nemei.
Erano offerti anche premi in denaro per attirare gli atleti più famosi o anfore
contenenti olio pregiato. Era il tempo in cui le prelibatezze della terra
potevano rappresentare un valore…..olimpico!
I
guantoni di allora erano lacci di cuoio rinforzati con placche di piombo, poi strisce di vimini con borchie di
ferro, oppure da cuoio trattato apposta per essere tagliente, e la gara poteva concludersi
perfino con la morte di uno dei due contendenti, senza risparmio di colpi con
mani e gambe. Il popolo di Roma voleva vedere annientare subito il meno forte e
la competizione non poteva durare troppo per cui ogni violenza era accettata.
Tale
sport segnò una fase di stanchezza nel Medioevo fino a quando nel XVIII secolo si cominciò a dare delle regole per
renderne agonistico il livello, e meno male!
Ma per
quante regole si diano il risultato rimane quello di vedere due soggetti,
atleti, che in uno spazio recintato si prendono a pugni e mi scusino gli
appassionati, ivi compresi quelli che tifano per una delle 1500 donne italiane
che praticano tale sport.
Ne
apprezzo la disciplina quale forma di esercizio sportivo ma non il modo.
Ed innegabile, in questa disciplina Muhammad
Ali fu un grande!
Maria
Frisella
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