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domenica 5 giugno 2016

Il pugilato, oltre Muhammad Ali.


La loro resistenza, la velocità, il sudore, la passione e la tecnica potrebbero farli sembrare  sicuri di sé e violenti sul ring, ma le loro storie accomunano miseria e rivincite, ghettizzazione e riscatto sociale favorendo le leggende che ne hanno fatto un simbolo della forza e dell’intelligenza motoria, ma anche di generosità sociale.
Il pugilato era definito da James Figg “la Nobile Arte della difesa”,  sport che prende in prestito i pugni dall’istinto dell’uomo quando deve difendersi e non ha armi. Non ho dubbi che sia così però non posso non osservare  la violenza che solleva intorno al ring tra gli spettatori, pure se anche il calcio la registra recentemente intorno al campo e fuori! 

Per questo non mi piace. Ma certamente dovette affascinare molto se, praticato con molto ardore, è ricco di testimonianze antichissime, dai graffiti del III millennio a.c., conservati al British museum of London, o nei versi dell’Iliade e dell’Eneide, in Socrate, nelle Panegirie di Erodoto, ne La Repubblica e nel Gorgia di Platone, nei gruppi scultorei dell’antichità!  Ve li ricordate, quando si studiava Omero, i versi in cui Epeo, costruttore del cavallo di Troia, dopo un incontro  di pugilato venne premiato  con una giumenta "indomita", dunque fiera ma senza regole?
I corpi erano atletici e come non ammirarli, eppure quella forza richiamava la sfera del divino! 
 Anche in Egitto violenza e sacralità dovettero rendere celebri i pugili  tanto da dipingerne ben oltre quattrocento, di fronte alla tomba del faraone Beni Hassan. 

Combattevano il  “pancrazio che univa pugilato e lotta, calci, pugni, prese articolari, concesse le lussazioni, la frattura delle ossa, le tecniche di strangolamento ma mai la morte punita penalmente.
Fu il principio dello sport quale rispetto del corpo e della mente che portò il pugilato nel panorama olimpico dal 668 a.C. e si combattè fino a al 393, quando l’imperatore l'imperatore Teodosio I vietò l'organizzazione di nuove olimpiadi.
Se i pugili, pure mortali, per vincere avevano bisogno degli Dei, quale migliore simbolo della vittoria se non la Nike, l’angelo alato ambasciatore di Zeus e Atena?

La Nike premiava il pugile più forte e vincente, coronandolo con una ghirlanda di olivo selvatico nei Giochi Olimpici, di pino nei Giochi Istmici, di alloro nei Giochi Pitici e di sedano selvatico in quelli Nemei. Erano offerti anche premi in denaro per attirare gli atleti più famosi o anfore contenenti olio pregiato. Era il tempo in cui le prelibatezze della terra potevano rappresentare un valore…..olimpico!

I guantoni di allora erano lacci di cuoio rinforzati con placche di piombo, poi strisce di vimini con borchie di ferro, oppure da cuoio trattato apposta per essere tagliente,  e la gara poteva concludersi perfino con la morte di uno dei due contendenti, senza risparmio di colpi con mani e gambe. Il popolo di Roma voleva vedere annientare subito il meno forte e la competizione non poteva durare troppo per cui ogni violenza era accettata.

Tale sport segnò una fase di stanchezza nel Medioevo fino a quando nel XVIII secolo si cominciò a dare delle regole per renderne agonistico il livello, e meno male! 
Ma per quante regole si diano il risultato rimane quello di vedere due soggetti, atleti, che in uno spazio recintato si prendono a pugni e mi scusino gli appassionati, ivi compresi quelli che tifano per una delle 1500 donne italiane che praticano tale sport.
Ne apprezzo la disciplina quale forma di esercizio sportivo ma non il modo.

Ed innegabile, in questa disciplina Muhammad Ali fu un grande!

                           Maria Frisella


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